VI - Risposte dalla roccia
Sono riusciti a cacciarli dalla cava; l’argento è finalmente nostro. Ma a che prezzo… Mentre i figli di Odo salivano con le provviste, ho approfittato della carovana per vedere di persona la situazione. I muli avevano gli zoccoli rossi, e si procedeva a rilento. Quando poi abbiamo raggiunto la stazione di posta ho vomitato. Quanti dei nostri… e quei bastardi hanno ammazzato tutti i minatori, bruciato i cadaveri e sepolti in una fossa comune. Ho aiutato i sopravvissuti a rendere loro onore. Siamo scesi alla Parete, mentre con orrore osservavo le incisioni funebri: non ci sono i nomi, solo gli anni e il numero di corpi che il Generale ha bruciato e gettato nei buchi della roccia. Ho appoggiato Gorunn, queste ultime vittime meritano un tumulo con una lastra incisa, e un albero-preghiera.
J. Yur, Diario della ribellione — II, Kibildûm (Archivio Celato)
La ragazza aveva sellato una cavalcatura solo un paio di volte in tutta la sua vita, ma mai era stata così avida di godersi una scena semplice come questa. I ronzini che lei e gli altri si erano procurati tra quelli che dovevano salire verso le miniere erano stanchi, ma temprati dal percorso che sicuramente avevano eseguito più volte nel corso della loro esistenza.
Non devi finire così, talmente assorta nella routine da non avere più scampo. Quante volte questi animali avranno percorso lo stesso sentiero? le suggeriva la testa, mentre tentava di stabilire se le staffe fossero abbastanza stabili. Decise di sbirciare l’operato degli altri.
I due nani, il Contatto e il Diplomatico, sembravano piuttosto a loro agio nel preparare i loro pony per la tratta. Probabilmente le sarebbe bastato memorizzare i loro movimenti, se non fosse stato per l’apertura alare del Dandy che le ostruiva la visuale. Da una parte l’Anziano stava cercando di convincere i due rettili a seguire gli equini senza che il più vivace dei due – presentatole con il nome di Tapas – tentasse di acchiappare al volo la coda del primo baio a portata di denti. Il Piccoletto lo aveva perso di vista: sentiva, quasi con certezza, che fosse lì intorno, ma la giovane non si era ancora scoperta in grado di individuarlo, se questo decideva di non farsi vedere.
Rifiutava di ammettere a se stessa che la cosa la irritasse. Era sempre riuscita a sembrare convincente, sufficientemente imprevedibile, ma mai invisibile, come imponevano invece gli insegnamenti che le erano stati impartiti. Aver qualcosa da imparare da uno scricciolo qualsiasi non le andava giù.
Mentre si era concessa di abbassare la guardia per rimuginare, si accorse che il Dandy aveva finito di stiracchiare le proprie ali, e le aveva lasciato involontariamente lo sguardo libero da ostacoli, così che poté portare a termine il suo compito senza intoppi. Strinse l’ultima cinghia nel modo in cui l’aveva fissata il Diplomatico, e chiese sovrappensiero:
«Ma anche tu Claudius hai bisogno del cavallo? Non puoi seguirci in volo?».
«Certo che posso. Ma non vorrei privarvi della mia presenza durante il viaggio. Sennò sai che noia…» disse lo squamarcana girandosi di profilo e guardandola di sottecchi. Il suo fare pacato e imperscrutabile era intrigante per la ragazza: si stupiva raramente e sembrava lasciarsi guidare nelle sue giornate dalle scintille di interesse che il mondo gli metteva davanti.
«No, è che mi chiedevo se quelle ali fossero lì solo per bellezza» ecco un commento che avrebbe potuto tranquillamente evitare. Il Dandy la fulminò con lo sguardo, socchiuse la bocca a inspirare per poi offrirle un secco ed enigmatico «La bellezza a volte cela la verità, Odine» concludendo lo scambio con un mezzo sorriso strafottente e gli occhi che mal celavano un barlume di divertimento. Era così che la ragazza si immaginava l’espressione di un drago che gioca con esseri che reputa inferiori. Era esattamente la reazione che voleva.
«Dunque ci siamo» esclamò a voce più alta il fabbro, mentre si aggiustava il cinturone con una mano e si massaggiava la barba brizzolata con l’altra «Se avete sistemato gli animali possiamo già partire». Il Dandy rispose sonoramente con uno sbadiglio «Qualcuno ancora deve spiegarmi perché dobbiamo partire con il cielo ancora bianco delle prime luci». La giovane trovò l’obiezione sensata, e la replica altrettanto convincente «Perché con questa luce così chiara posso infilare ai ritardatari il mio stivale su per il…». «Ciò che il signor Ki-do intende in modo colorito» interruppe il Diplomatico «è semplicemente che ci separa quasi un giorno intero di viaggio dalla cima delle colline, e che potrebbe essere un’ottima pensata arrivare là per cena e scambiare due parole con i minatori». Il Dandy annuì al discorso del nano che così gentilmente gli aveva risposto, senza staccare lo sguardo dall’altro, sibilando qualcosa in quello che la ragazza riconobbe come linguaggio draconico, ma il cui senso non riuscì ad afferrare dato che il pony del Contatto aveva deciso in quel preciso momento di scuotere rumorosamente la criniera.
***
Una volta superata la porta ovest della città, sotto gli sguardi severi delle guardie al cancello, le sei cavalcature con i loro cinque cavalieri si inerpicarono sulla sassosa strada che saliva sulla collina. Il territorio era brullo, con alberi isolati piuttosto spogli e una bassa vegetazione che, malgrado la stagione, esibiva toni quasi autunnali. Un paesaggio duro… come la lingua dei nani, si ritrovò a pensare la ragazza, mentre non si perdeva mezzo secondo di quella partenza. Ammirare un paesaggio così diverso dalla sterminata pianura della Capitale, ascoltare i suoni della natura così tanto lontani dalla sua esperienza, poter osservare i suoi compagni senza attirare particolare attenzione: non c’era niente di meglio per lei, ne era certa. Così come certo fu il drastico calo della sua attenzione dopo le prime due ore di movimento ondulatorio sul cavallo. Piccole isolate fattorie erano presenti nei primi chilometri, distanti dal sentiero principale, ma abbastanza vicine alla cinta muraria o ben protette perché scavate parzialmente nella roccia. La strada era ampia, ma si faceva più ripida e dissestata non appena un tornante serpeggiava sul costone roccioso dell’altura. Piccole pietre miliari a lato della via scandivano la distanza; piante basse e spinose crescevano in macchie lungo il percorso, e si ricoprivano di polvere al passaggio della compagnia. In testa i due nani chiacchieravano esclamando poche parole nel loro idioma, e interagendo fra loro in lingua comune per permettere all’Anziano di seguire la loro conversazione e di intervenire. Negli occhi del vanara si rifletteva soprattutto il cielo: aveva i sensi ben consci del mondo intorno a sé, e anche se ogni tanto sembrava chiudere gli occhi per riposare, non appena tornava a scambiare chiacchiere con i due, il suo sguardo volava verso l’alto. A chiudere il gruppo, la bestia da soma, legata al ronzino della ragazza, che cavalcava a qualche metro di distanza dal Dandy che ora sonnecchiava, ora osservava il candore della pelliccia dell’Anziano davanti a lui, ora leggeva un libro tirato fuori dalla giacca, ora vi annotava appunti a margine. Sarà effettivamente uno studioso come ha detto?
Poco dopo, l’avanzata diventò un susseguirsi di salite rocciose e dialoghi futili, e dopo che si fu accorta di aver perso del tutto il filo del discorso che avveniva in cima alla colonna, provò a recuperare l’attenzione cercando di rovesciarsi parzialmente in faccia il contenuto dell’otre che portava con sé. Fino a quando quel ritmo altalenante l’avesse accompagnata, non sarebbe riuscita a mettere mano ai suoi preziosi appunti. Era stata così catturata dalla nuova avventura, che quell’angolo vigile della sua mente si era come nascosto, rintanato fin troppo bene, ma il tedio dovuto al lungo percorso – o forse la vista di Claudius alle prese coi suoi libri – aveva risvegliato un’ansia latente e l’urgenza insostenibile di proseguire lo studio.
Si voltò verso il pony da carico che si trascinava in coda, legato alla sua cavalcatura. Nonostante fosse privo di cavaliere, sembrava arrancare sotto il peso delle bisacce. Poi la sua attenzione fu colta da un sonoro sbadiglio.
«Vedo che non sono l’unica a soffrire la monotonia del percorso» si rivolse al Dandy, dopo il muggito sonnolento.
«Veramente l’ho fatto per te» replicò lui «mi sembravi vicina a cadere da cavallo. Tutto bene?»
«Ma certo, cosa ti fa credere che io sia…» ma non finì la frase. Anzi arrossì, dopo aver sbadigliato sonoramente di riflesso, sotto lo sguardo compiaciuto dell’altro, un ironico sorriso stampato in volto. La ragazza smise di parlare per un po’; tirò fuori carbone e matita per decorare in modo consono il suo volto, dopodiché evitò accuratamente di imbarcarsi in una discussione poco produttiva, lasciandosi invece trasportare dal ritmo del viaggio, e sperando con tutta se stessa che la noia non la inseguisse fino a sera.
***
Contro ogni speranza, il viaggio durò l’intera giornata, e fu tutt’altro che movimentato. Una breve pausa per il pranzo fu l’unica occasione per condividere qualcosa con gli altri; mentre i nani sembravano rinvigoriti dalla scalata, lei era troppo appesantita dalla situazione, tanto che, pur volendo intrattenere una conversazione, si limitò ad ascoltare passivamente le loro parole, che il caldo pomeridiano cancellò non appena si rimisero in cammino.
Via via che i lenti pendii giravano in tornanti verso le cave, laddove la roccia iniziava la salita più ripida per unirsi alle cime della Spina Bianca, il paesaggio si faceva sempre più silenzioso. Il sole era pallido in cielo, e la marcia del gruppo era placida, senza niente o nessuno che interrompesse l’andamento ondeggiante dei ronzini sui sentieri rocciosi.
Al calare del sole giunsero in vista di un grande casolare in pietra. Man mano che si facevano vicini lungo la via tortuosa e dissestata il cielo si tingeva di toni rossastri. Le lampade sul posto facevano brillare e tremolare le finestre della struttura.
Essa era probabilmente ricavata dall’ampliamento di una vecchia stazione di posta. Da lontano un vento leggero che soffiava a quell’altezza portava i nitriti dei cavalli nelle stalle, erette al fianco della magione. La luce illuminava i profili di alcune costruzioni in pietra posizionate intorno al complesso principale, sembravano abitazioni a pianta circolare con un basso tetto spiovente – a misura di nano.
Mentre il gruppo raggiungeva la destinazione, la ragazza notò sul lato della strada che dava a nord una serie caotica di tumuli di modeste dimensioni che costellavano la parete brulla del colle; il versante, già al buio, lasciava intravedere un bel numero di elementi rocciosi disposti in modo sufficientemente ordinato da rivelarne la natura artificiale, ma incastonati così bene nell’ambiente da sembrare parte del paesaggio che li circondava. L’oscurità stava lentamente avendo il sopravvento sulla roccia, e occhi non abituati all’oscurità non riuscivano a distinguere altro con chiarezza. Se ne indispettì.
A rompere il silenzio fu il Diplomatico, dalla cima della colonna. «Signori, se volete possiamo rallentare il passo. Stanno arrivando verso di noi». La ragazza d’istinto strinse l’impugnatura della lancia corta che portava sempre al fianco, e un brivido di eccitazione emanò dalla punta dell’arma; non sarebbe stata sfoderata, ma bastò quella scossa per ridestare del tutto il suo spirito. Appena si fecero più vicini, dalla sua posizione notò due figure basse e massicce che avanzavano verso il gruppo. Il Contatto e il Diplomatico si fecero loro incontro, e scambiarono brevi ossequi a bassa voce, presentandosi. Mentre i due individui si spostarono a lato della strada per cedere il passo, il fabbro, ancora sul pony, riaccese la pipa e dopo una lunga boccata si voltò verso gli altri «Seguiamo la strada. I nostri ospiti ci attendono». La cortesia di tale ospitalità fu messa in chiaro fin da subito: appena i ronzini di coda passarono davanti ai due barbuti figuri, prima uno e poi l’altro sputarono rumorosamente per terra. Il Dandy sospirò «Che nostalgia! La proverbiale ospitalità dei nani!».
Arrivarono alla stazione di posta dismessa, ora adibita a locanda, proprio mentre gli ultimi raggi del sole brillavano in lontananza. Lasciate le cavalcature nella stalla, il gruppo fu raggiunto da un certo Torbag, presentatosi come capo minatore, che li accompagnò all’interno mentre già il Diplomatico aveva iniziato ad ammansirlo con i convenevoli.
Sicuramente la struttura aveva visto giorni migliori, e a prima vista era stata costruita per ospitare ben più del numero dei clienti ora presenti, che quella sera superavano la trentina. Era una gigantesca stanza comune, con il pavimento in pietra, così come i pilastri portanti. L’edificio era in legno massiccio, annerito e vecchio ma senza troppe imperfezioni. Otto tavolate a misura nanica erano disposte in due gruppi simmetrici davanti a un basso bancone dove erano sistemate bevande e cibarie sorvegliate dall’occhio attento di una coppia, marito e moglie probabilmente, l’oste dal baffo scuro e dall’occhio attento e la signora che bacchettava con un mestolo di legno le mani troppo avide. I tavoli erano carichi di avventori del turno giornaliero, che rilassati e chiassosi si godevano chi un pasto, chi una bevuta in compagnia, chi una rilassante boccata di fumo dalla propria pipa. L’odore del legno era prevalente, ogni tanto sovrastato da quello della selvaggina o del tabacco, misto al sudore e alla torba di cui erano impregnati gli stivali degli operai. In un angolo, incastonato nella pietra, un camino scavato in quella che doveva essere una roccia preesistente alla locanda, come se tutto il resto fosse stato costruito seguendo un progetto che fin dal primo momento teneva conto di quell’elemento. La fornace era accesa, con un fuocherello allegro che riscaldava la stanza senza però soffocare gli avventori; sulla fiamma giaceva un trespolo con una grossa pentola che emanava un odore erbaceo pungente, probabilmente una zuppa di qualche tipo.
Il Contatto e il Diplomatico presero posto in una tavolata libera, seguendo l’esempio del capo minatore, munendosi prima di scodelle e prendendo dal bancone quanto veniva concesso loro, senza recriminare. Il vanara si preoccupò invece di reperire un piatto di selvaggina che, con vistoso disappunto dei padroni di casa, venne posato a terra per dare sostentamento ai suoi compagni animali; lui invece si diresse verso il pentolone che sobbolliva sul fuoco.
Lo squamarcana aveva assunto un’espressione scettica, con uno dei due sopraccigli che non accennava ad abbassarsi, mentre il suo sguardo saettava dalla misera mezza pinta che gli era stata servita, al boccale straripante di ogni altro avventore. Sorrise sornione solo quando vide che alla ragazza era stato riservato lo stesso trattamento. Il Piccoletto comparve solamente quando gli altri, eccetto l’Anziano, furono al tavolo, e la sua ciotola era carica di cibo, che venne rapidamente ed equamente divorato dal coboldo e dalla sua inseparabile scimmietta. Come avesse fatto ad arrivare insieme a loro in quel luogo rimase per lei un mistero. Intanto la ragazza, dall’esatto momento in cui era scesa dalla cavalcatura, con il ritmo altalenante dei pendii ancora impresso nei tendini, aveva drizzato le orecchie sentendo gli stallieri confabulare in nanico. Aveva un’innata predisposizione per l’apprendimento delle lingue, come del resto tutti quelli del suo popolo, e per quanto suonasse duro, aspro e ostico, era già riuscita a decodificare il sistema per individuare referenti e azioni in una frase, che sembrava dipanarsi in una concatenazione piuttosto regolare di parole e particelle ricorrenti. Da quando aveva incontrato la prima volta il Contatto, era rimasta affascinata dall’idioma a lei ignoto, e si era incaponita ad apprendere fin da subito i saluti, il sistema numerico, gli ossequi formali e le offese più frequenti. Ormai i toni della lingua suonavano per lei una melodia familiare. E in quanto tempo? Se le altre lingue sono tutte così, sarà una passeggiata, si trovò a pensare. Non voleva sfoggiare ancora il suo nanico estremamente basico, ma si concentrava sugli accenti e sulle intenzioni: sicuramente da quando erano arrivati nessuno sembrava apertamente propenso a fregarli, nonostante i gesti e le mezze imprecazioni, ma era palese che la maggior parte degli abitanti del luogo non si fidasse di loro e che li considerasse una gigantesca scocciatura.
«Ho parlato con i lavoratori in città, e abbiamo perso già una decina di braccia nelle scorse settimane» stava dicendo il responsabile, rivolto ai due nani che viaggiavano con lei «Non fraintendetemi» e tirò un lungo sorso di birra schiumosa «non perché siano morti. Quella è una storia diversa… È solo che la gente non ha più voglia di lavorare quassù. Si fanno licenziare e finiscono il turno, per paura degli» e utilizzò una parola che per il gruppo non aveva significato. La giovane non volle interrompere il discorso, e interrogò il Diplomatico con uno sguardo e un gesto con la mano; quello, a sua volta, si limitò a sillabare lentamente la traduzione in linguaggio comune, affinché lei e il Dandy potessero leggere il suo labiale: “spettri”.
«Una storia diversa… quindi c’è una storia. Perdonami Torbag, ma vorrei sentirla» lo incalzò il fabbro, col suo fare spigliato e senza mezzi termini. Prima di rispondere, il capo minatore sgranò gli occhi, si asciugò la fronte e sorseggiò una lunga dose della sua pinta. Poi riluttante: «Qualcuno dice che un paio di quelli che abbiamo congedato in realtà siano… scomparsi. Che io perda la barba, stupidaggini!».
«Da ciò che sappiamo – e le sue parole lo confermano – ci sono state effettivamente morti e sparizioni. Forse potrebbe darci qualche notizia in più, oltre alla sua mera opinione» intervenne la ragazza tutto d’un fiato.
La situazione si stava scaldando, e la fretta l’aveva fatta parlare ancor prima di pensare alle conseguenze delle sue azioni. L’interlocutore balbettò qualcosa, nascondendo il baffo dietro un altro sorso di birra, ma il Contatto approfittò della sferzata e insistette «Beh, la signorina qui non ha tutti i torti. Chi sono i presunti scomparsi? Avevano un nome o una famiglia? E, se posso, chi sono quelli che sono stati tumulati di recente? Ho visto movimenti sul versante roccioso, sul finire del nostro viaggio». Il responsabile parve scosso, e si mise a confabulare in nanico col Diplomatico, ma il primo scambio non arrivò alle orecchie della giovane, che nel frattempo si era allungata sulla tavolata per chiedere a bassa voce «A proposito Ki-do, è da prima che volevo saperlo: quel mosaico roccioso sul versante della collina…».
«Proprio a quello mi riferivo. Forse lo hai intravisto, nascosto dall’ombra delle montagne lontane: un cimitero dei nani. Dalla roccia veniamo, alla roccia siamo riconsegnati. C’erano dei tumuli freschi, e un albero-preghiera appena piantato». Se la ragazza avesse potuto specchiarsi, sarebbe rimasta delusa per aver lasciato trasparire troppo entusiasmo, date le circostanze. Ma la meraviglia lasciò un’impronta evidente sul suo volto, a cui il nano suo compagno rispose con un tiepido sorriso «Opere grandiose. Magari dovremmo farci un salto». Lei annuì, gli occhi lucidi di curiosità.
«… la maggior parte di queste cose è accaduta prima che arrivassi su come capoturno!» stava dicendo il minatore al Diplomatico, quasi scusandosi in tono lamentoso «E poi quel Rolni ha voluto subito la sua parte, ma non è passato nemmeno a ritirarla, ho dato per scontato che avesse fretta di tornare a valle…».
«Affinché io abbia un quadro più chiaro della questione, dovrebbe evitare di lanciare nell’aria nomi di individui che non conosco, e basarsi sui fatti» rispose il Diplomatico in nanico, poi continuò in lingua comune verso il gruppo: «Torbag è scosso. Sa qualcosa, ma sono solo brandelli di un quadro più ampio. Secondo il mio modesto parere, dobbiamo chiedere in giro di persona, per scoprire qualcosa in più».
«Quindi stasera ci riposiamo… e domattina chiacchieriamo» riprese il Contatto, lo sguardo fisso sul minatore. «Spero ci possiate fornire un alloggio, non abbiamo molto ma siamo disposti a pagare per l’ospitalità». Il responsabile si riprese per un attimo «Abbiamo una mezza camerata a disposizione, i lavoratori sono meno del solito…».
«Camerata… una camerata avete detto? Mi sarei fatto miglia in groppa a un fetido ronzino su per crinali rocciosi per dormire in una stanza condivisa? Ma dove siamo capitati?» il Dandy sbottò in modo indelicato. «In una locanda per minatori, Claudius» replicò semplicemente il Diplomatico «e mi pare di capire che tu voglia una camera singola, per quanto sia improbabile».
«Dopo il viaggio di oggi non la voglio, la merito. So già che dovrò passare sopra al fatto che non ci sia un bagno… uno vero, dico».
Il vanara, che era riuscito intanto a farsi servire una generosa dose di zuppa, con il cucchiaio di legno in mano disse guardando i nani «Qualsiasi giaciglio per me andrà bene».
«Visto che siamo in argomento, anche io gradirei un po’ di intimità» azzardò la giovane, sperando che giocarsi la carta “sono l’unica fanciulla” in questo momento potesse fornirle il posto appartato che cercava.
«Possiamo organizzarci, a seconda della disponibilità che ci offre il signor Torbag» rispose il Diplomatico. Poi aggiunse, guardando negli occhi il minatore «Sta a lei: più la nostra permanenza sarà confortevole, prima avremo finito di starle fra i piedi. E potrà tranquillamente tornare a dimenticarsi le nostre facce. Le offriremo equo compenso, s’intende».
***
Al mattino il gruppo si divise. Forse meglio dire che il Dandy rimase a riposare più a lungo degli altri, e che il coboldo era già scomparso nuovamente quando il Diplomatico cercò di scovarlo per chiedergli se volesse unirsi a loro. La mattinata si prometteva stimolante, ma dal punto di vista della ragazza fu un buco nell’acqua. Pensava che sarebbero riusciti a individuare in breve tempo uno schema o un indizio che li guidasse in una direzione; che avrebbero trovato qualcuno sì di poche parole, ma che avesse solo bisogno della giusta leva per vuotare il sacco. Invece per gran parte del tempo il gruppo composto da quattro individui, i due nani e l’Anziano, e lei con loro, guidati da quel tale che si era presentato come capo minatore, camminò prima verso l’ingresso delle miniere e all’esiguo numero di casupole costruite ai loro piedi, e poi nei tunnel esterni principali, per parlare con questo o quell’altro tizio.
E quando il Diplomatico pazientemente si rivolgeva a loro – in lingua nanica, l’unica a cui davano risposta – chiedendo cosa ne sapessero delle sparizioni, chi fosse coinvolto, se si fossero verificate stranezze, i più educati facevano spallucce e, senza staccare mai gli occhi dal capoturno, negavano ogni conoscenza. La maggior parte invece inveì malamente – in un nanico grezzo, così scurrile che non servirono le abilità linguistiche della giovane per capirne i sottintesi – protestando contro i curiosi che impedivano loro di fare un buon lavoro in santa pace.
Dopo una mattinata del genere, alla proposta di continuare gli interrogatori anche nel pomeriggio, la ragazza lasciò volentieri il suo posto al Dandy, che ignaro si unì baldanzoso agli altri tre, mentre lei finse stanchezza, solo per poter avere una buona scusa per studiare da sola nella sua camera. Senza perdere tempo, una volta congedatasi dagli altri, si diresse a “riposare”, salutando lo squamarcana con un «Buon divertimento, Claudius» e un sorriso che tentava di celare l’ironia della frase; se non avesse avuto di meglio da fare, avrebbe voluto vedere la faccia del compagno di viaggio dal vivo, quando si sarebbe trovato davanti lo stesso muro di omertà e frustrazione che l’aveva fatta desistere.
La sua stanza singola, ottenuta la sera prima dopo fruttuose trattative a un prezzo del tutto irragionevole, aveva un arredamento essenziale: la camera consisteva in una piccola branda, una sedia sgangherata e un comò che si reggeva in piedi a malapena, un grosso cubo di legno che scricchiolava in modo molesto; a completare il tutto, una vecchia lampada a olio ricavata da un casco da minatore. Gli spifferi del sottotetto rendevano spettrale l’atmosfera notturna, ma al mattino si erano rivelati piacevoli. Ora, nel pomeriggio, quei rivoli che le accarezzavano il collo la rilassavano, mentre si accucciava con le ginocchia al petto, e delicatamente sfilava le pergamene della ricerca di cui era in possesso, cominciando a sentire l’eccitazione della scoperta. Si guardò un’ultima volta intorno, come ad assicurarsi di non essere disturbata da occhi o orecchi indiscreti. Dopo un attimo di esitazione, si alzò a prendere la lampada, mise in ordine gli appunti e ricominciò a studiarli attentamente alla sua luce; sembrò che anche il comodino, avendo intuito l’importanza del momento, avesse smesso di scricchiolare.
***
Si riscosse dallo stato di concentrazione in cui si era calata solo dopo svariate ore. I toni soavi del Dandy e del Contatto che litigavano raggiunsero il sottotetto della locanda appena il gruppo si riaccostò alla struttura, a qualche centinaio di metri dall’entrata. Dovevano esserci meno progressi del previsto.
La giovane ebbe il tempo di stiracchiarsi, spegnere la lampada, accorgersi che ormai il sole stava tramontando e – giocherellando con la lancia prima di rimetterla nel fodero – raggiungere la parte alta delle scale per assistere all’entrata dei compagni. Stanchi, abbattuti, e… impolverati. Dovevano essere scesi più in profondità: tutti tranne il Dandy, che stava polemizzando con veemenza. Mentre scese le scale, le scappò un sorriso divertito che durò un secondo.
«… fammi un favore, entraci tu la prossima volta!» il fabbro sembrava pronto a esplodere.
«L’avrei fatto volentieri anche oggi, ma non avete voluto che tornassi indietro a cambiarmi. Una camicia di bodak costa più del viaggio che ho deciso di intraprendere insieme a voi» fu la risposta.
Il Diplomatico si passò una mano sulla faccia, dalla fronte alla barba, roteando gli occhi senza essere visto dagli altri. Imperturbabile restava l’Anziano, che con un’espressione pacata stava spolverando all’ingresso uno dei due rettili che lo seguivano sempre, tutto inzaccherato di terra e torba.
«Deduco che sia stato un pomeriggio… deludente» intervenne la giovane, facendosi incontro al gruppo.
Il Dandy sibilò scocciato, il Contatto si girò verso di lei con le folte sopracciglia corrucciate, ma fu il Diplomatico a dire «Purtroppo ci vuole pazienza per condurre un interrogatorio, Odine. Una qualità che solo pochi di noi possiedono. Spero tu ti sia riposata a sufficienza, perché buco nell’acqua o no, un pesce lo abbiamo pescato».
La ragazza si risentì: forse avrebbe dovuto partecipare attivamente alle ricerche anche nel pomeriggio. Il rimorso durò poco, visto che lo squamarcana aggiunse «Ciò che abbiamo trovato è a mala pena una traccia. Volendo seguire la tua metafora Ganus, se fosse una specie acquatica sarebbe un pesce zanzara».
«Un minuscolo risultato è pur sempre un risultato» l’Anziano si inserì nella conversazione, evento che ebbe l’effetto di ammutolire il Dandy e far sorridere il Contatto.
«Non manca molto alla cena. Direi di sederci a un tavolo e discutere delle novità. Volevo anche vedere se… oh!» mentre il Diplomatico stava per iniziare un discorso, il Piccoletto gli comparve al fianco tirandogli la veste come un bambino con la balia, la scimmietta che faceva capolino dal mantello. «Anche io ha scoperto una cosa, Ganus. Io dice a te dopo!» A quanto pare la breve apparizione fu sufficiente per il coboldo, che dopo aver esclamato questa frase, si diresse senza troppi complimenti verso la selvaggina che i nani della locanda stavano preparando sul bancone per la cena.
***
«Ah! Quindi ci sono stati dei morti!» esclamò la ragazza.
«Abbassa la voce. Loro non la vedono così. Due uomini sono “spariti” mentre si addentravano nella foresta. Dal punto di vista dei minatori, sono semplicemente andati via, scappati da qualcosa… forse per debiti, dicono; spariti in una giornata nebbiosa, verso la foresta. Ma temo per loro una fine più triste, ed è probabile che uno di loro fosse il fornitore che stiamo cercando. E poi c’è quella famiglia: padre e figlio sono stati trovati al limitare del bosco, morti per cause sconosciute. Lui era andato a cercare il pargolo, che si era perso. In capo a una settimana, tutte le famiglie sono tornate in città. Per paura, credo» il Diplomatico aveva delineato un ottimo profilo della situazione. Non c’erano colpevoli, all’apparenza.
«E non è stata una buona idea andare tutti insieme a ficcanasare» aggiunse il Contatto «Avremmo scoperto tutto questo ore prima, e magari avremmo potuto…».
«No Ki-do. Ti ho già detto come la penso. Secondo il mio modesto parere non è una buona idea» l’altro nano troncò il discorso, che subito lasciò incuriosita la giovane. «Quale idea?»
Il Diplomatico tergiversò «Questa giornata mi ha provato. Eventualmente parleremo di questa cosa domani» e disse l’ultima frase guardando fisso negli occhi il Contatto, che alzò le mani e sbuffò, in un burbero ma amichevole gesto di resa. Fece per salire al piano superiore. Poi si fermò e la guardò «Niente colpi di testa». Se ne andò su per le scale. La giovane voleva riuscire per una volta a capire dove fuggisse il Piccoletto, e tornava sempre con lo sguardo su di lui: ora sbadigliava dopo il lauto pasto, mentre la scimmia lo puliva da pulci immaginarie. Ma quando fu distratta, e salutò il compagno, fece solo in tempo a vedere una coda che spariva sotto il tavolo.
«Beh, direi che mi congedo anche io per stasera. Vogliate scusarmi, ma ne ho abbastanza di superstizioni sulle giornate di nebbia e sugli spettri. Vi auguro una buona notte!» il Dandy se la svignò subito dopo il più giovane dei due nani; era palese che non voleva trovarsi da solo ad affrontare il fabbro senza avere qualcuno in grado di usare una giusta leva per calmarlo. Il nano infatti, grugnì sonoramente non appena l’altro si fu alzato, e ordinò per sé una birra. La ragazza ne approfittò per rimanere a bere e a chiacchierare con lui – e con l’Anziano, che però aveva chiuso gli occhi dopo aver cenato, e lì dov’era seduto lo aveva sentito mormorare qualcosa, ma sembrava che dormisse, o che meditasse. Attese che portassero da bere al suo compagno di viaggio, ordinò per sé la stessa cosa, e senza mezzi termini incalzò.
«Quale idea, Ki-do?»
Il nano sorseggiò la sua pinta «Direi che è tardi, mia cara» rispose con un sorriso. «Ganus ha ragione. È meglio se ne parliamo domani» queste furono le sue parole, ma si sentiva dalla voce la voglia di agire.
«Ganus lo conosco da qualche giorno, e mi sembra un tipo prudente. Fai bene a fidarti» iniziò la giovane. «Solo, non vorrei che un eccesso di prudenza ci faccia perdere la strada, giacché abbiamo ancora così poche informazioni».
Un secondo, lungo sorso alla pinta. «Siete entrambi giovani e promettenti, Odine. Uno calmo, come l’acqua prima di temprare l’acciaio. Mentre tu… forse sei più simile a me. E ti caccerai nei guai, stai sicura. Però forse se siamo in due…» si sporse verso di lei, mentre anche alla ragazza arrivava da bere. «Ti ho già parlato ieri del cimitero sul versante montuoso. È saltato fuori che i tumuli freschi sono del padre e del bambino trovati fuori dalla foresta. Avevo, rispettosamente, chiesto a Ganus se voleva venire insieme a me a… esaminare i corpi, qualora le cause della loro… dipartita non fossero naturali, ecco».
«Oh, interessante. Audace da parte tua Ki-do, chiedere a un religioso di dissacrare una tomba».
«Sciocco da parte tua pensare che queste fossero le mie intenzioni; a Est non insegnano il rispetto per i defunti?»
«Suvvia Ki-do, non lo sto dicendo con mancanza di rispetto. Anzi, penso che sia una buona idea. Una di quelle da portare a termine nel minor tempo possibile. Ma esaminare un cadavere può davvero tornarci utile… esattamente come?»
Seguì un silenzio tra i due, ovattato per i rumori della taverna, interrotto dai sorsi rumorosi del nano e dallo stridere di uno dei rettili del vanara ai piedi del tavolo.
L’Anziano aprì gli occhi, e li voltò prima sulla ragazza, poi sull’amico. Sorrise. Il fabbro sorrise di rimando «E tu cosa pensi di tutto questo, Kento?».
«Io? Penso che una farfalla possa battere le ali più forte che può, ma non potrà mai vincere il vento».
«Cioè?» la giovane si lasciò sfuggire l’interrogativo.
«Se questi indizi portano a una tomba, noi non possiamo vincere la morte. Certo, può esserci un’altra via».
«Di quale via parli, amico mio?» chiese genuinamente il nano.
«Vi va una passeggiata alla luce delle stelle? Sento un gran fermento nell’aria, stanotte» e senza aspettare risposta dai due, si alzò e si avviò alla porta, con i due rettili che lo tallonavano.
Il Contatto rise, finì la sua bevuta d’un fiato, e si alzò per seguire il compagno. Lei fece altrettanto, e la birra le offrì un bel quarto d’ora di capogiri. Non fece fatica a trovarli nel buio: l’Anziano aveva con sé una lanterna che faceva una bella luce calda; la luce stessa sembrava viva, pensò prima di accorgersi che la fonte luminosa era in effetti quella di una grassa lucciola che si librava in un contenitore vitreo. Rimase estasiata.
Il fabbro si era addentrato nell’oscurità, facendo da guida e portando i due compagni verso la discesa che doveva condurre al cimitero. La ragazza riusciva a distinguerlo, al limitare del raggio di luce della lanterna, che con andatura baldanzosa procedeva a ritroso sulla strada che avevano percorso a cavallo il giorno prima; la notte era limpida, nel cielo solo un paio di nuvole si muovevano veloci alla luce bianca delle stelle. In lontananza, in basso, si intravedevano i lumi caldi di Keldûm. Non si era resa conto che il cimitero fosse così distante – a cavallo le era sembrato molto più vicino alla loro destinazione – ma non si lamentò, seguendo passo passo il vanara nelle tenebre.
Un vecchio albero arcuato segnava l’inizio della terra sacra. Con l’oscurità così presente se ne accorse solo perché il Contatto si fermò ai suoi piedi, lo toccò con una mano e a bassa voce disse nella sua lingua «Un giorno tornerò da te, mia Terra». Sembrava fatto di legno pietrificato, o di roccia scolpita come fosse legno. Una cosa che solo i nani avrebbero potuto lavorare in tal modo. Appesi ai rami rocciosi, privi di foglie verdi, c’erano lunghe strisce bianche di un materiale simile alla stoffa, che ondeggiavano nella brezza notturna. La giovane trattenne il fiato, stupita. L’Anziano sollevò la lanterna passando sotto l’arco disegnato dal tronco, e alla vista delle fasce bianche disse: «Ah! Preghiere dei nani! Non le vedevo da anni!».
Procedettero lungo il costone roccioso, che si allungava in terrazzamenti solo apparentemente irregolari: una serie di tumuli e iscrizioni sulla roccia identificavano i corpi più recenti, e li distinguevano da quelli più vecchi e antichi, sepolti invece nella viva pietra; il luogo non doveva essere attivo da più di due generazioni.
«Ci siamo signori» una voce nel buio, quella di Ki-do, interruppe bruscamente la curiosità che stava divorando la ragazza, mentre si spostava per toccare un’iscrizione sulla parete. A malincuore si voltò, e andò avanti qualche metro, dove anche il vanara si era fermato a contemplare la coppia di tumuli che l’occhio del nano doveva aver scorto durante la salita.
«E adesso?» disse lei.
«Adesso si scava» le fece eco il fabbro. «Quando la terra è smossa da poco, nei paraggi dovrebbero esserci… esatto!» e frugando nell’oscurità verso la parete di roccia, tornò alla luce con una pala. «Devi dirmi, amico mio» continuò rivolto al vanara «cosa intendi fare adesso?».
«Pensavo» rispose l’altro «che magari loro, oppure uno solo dei due, abbiano visto o sappiano qualcosa. Quale sarà il più probabile?». L’ultima domanda parve retorica, ma la ragazza pensò che a qualcuno dovesse essere rivolta, perché il vanara chiuse nuovamente gli occhi per qualche secondo, prima di continuare deciso «Il bimbo. Il padre cercava il figlio. Lui si è cacciato nei guai. Chiediamogli come» fece un gesto verso il Contatto, che rispose con uno sguardo interrogativo prima verso di lui, poi verso di lei.
«Chiedere… a chi?» fece questa, in risposta.
«Grazie agli spiriti non sono mai solo. Essi sono la mia guida, la mia connessione al Tutto» rispose semplicemente l’Anziano. «E grazie agli spiriti, se me lo concederanno, posso conversare brevemente con coloro che non sono più tra noi. Presto, liberiamo dalla terra il corpo del più giovane. Voglio fare un paio di domande al suo spirito».
Il fabbro si chinò per scegliere il punto dove scavare e poggiò a terra la pala. Vista la sua esitazione, la ragazza la raccolse senza complimenti e intaccò energicamente la terra ancora morbida del tumulo. Il nano dopo i primi secondi si offrì di darle una mano, e fecero a turno per l’uso dello strumento; mentre lei non si preoccupava di sporcarsi e aiutava l’altro con le mani quando non ne era in possesso. In breve tempo riemerse un corpo minuto avvolto in fasce candide, i capelli appiccicati al volto emaciato e intrecciati sul petto. Il suo aspetto doveva avere qualche significato rituale, e lei si girò rapidamente verso il Contatto per interrogarlo. Il volto di lui però si era rigato di lacrime alla vista del cadavere; la curiosità le morì in gola. Osservare un corpo senza vita non era una cosa che la giovane aveva avuto occasione di fare spesso. Quelle rare volte che era accaduto, le era sempre parso strano come un guscio vuoto privo di vita – la nuda pelle di un rettile dopo la muta – potesse commuovere qualcuno. Era un’immagine che la affascinava e la intristiva al tempo stesso. Non appena i due ebbero finito, si tirarono su dalla buca, per lasciare spazio all’Anziano.
Egli mormorò una breve cantilena, mentre con delicatezza avvicinava le dita delle mani al viso del defunto. Una improvvisa scossa di energia fece vibrare l’aria intorno a loro, con minuscole luci che disegnavano un arabesco sul corpo e sulla faccia dell’individuo che emergeva dal tumulo: un piccolo fuoco fatuo brillò sulla sua fronte per un istante. Dapprima ci fu silenzio – si udiva solo qualche grillo solitario.
Un sonoro schiocco provenne dalla mascella del cadavere. La ragazza era impressionata: non solo il suo nuovo compagno di viaggio era stato in grado di usare un potere per richiamare una parvenza di vita nel corpo che avevano davanti, ma la calma e la concentrazione di Kento erano sconvolgenti. In quel momento, oltre all’ammirazione che nasceva dentro di lei, sentì il forte desiderio di connettersi a quel “tutto” di cui l’incantatore aveva parlato in precedenza. Non volle però interrompere il momento – già cupo, per via del sordo ansimare del volto putrefatto che iniziava a roteare ciò che rimaneva nelle orbite. Attese che chi aveva lanciato l’incantesimo trovasse la concentrazione.
«Cosa ti è capitato, ragazzo?» la prima domanda fu disarmante nella sua semplicità.
Una roca voce ultraterrena, proveniente dal corpo senza vita, che ora sembrava tutt’altro che morto, rispose «Sono… stato… a trovare… la nonna».
Un brivido percorse la schiena della giovane. Cosa c’entra sua nonna in tutto questo? si trovò a pensare. Il silenzio era assordante, rotto dall’ansimare del cadavere momentaneamente rianimato. Il vanara chiuse gli occhi e annunciò «Solo un'altra domanda: dove abita la nonna?». I due spettatori trasalirono.
«Nel capanno… da caccia… nel bosco». Parve che il corpicino espirasse un breve lampo di luce, prima di richiudere gli occhi; in un rantolo l’incantesimo ebbe termine. L’eco sibilante dell’ultimo respiro rimase nell’aria ancora per qualche istante. Lo sciamano ripose il cadavere al suo posto e si tirò su dalla fossa. Mentre il Contatto cominciava a ricoprirla, chiese: «Un altro fiasco?».
«Gli spriti sono criptici» iniziò il vanara «ed è difficile interpretare ogni sfumatura di significato. Mi è sembrato più semplice chiedere cosa fosse accaduto, e dove. Quindi no, mio caro amico, non è stato futile. Hai una destinazione: la foresta più vicina».
Il fabbro e la ragazza ricoprirono la buca, ricostruendo il tumulo. Poi lasciarono la pala dove l’avevano trovata, e risalirono verso la locanda, stanchi e inzaccherati di terra e polvere. «Nessuno mi negherà un bagno appena saremo ai nostri alloggi» fece lui. Anche la giovane si accorse di essere più sporca di quanto non fosse stata in tutta la sua vita; sicuramente avrebbe dovuto anche lavare la sua veste. Magari i nani le avrebbero concesso di poter prendere la cenere del camino.
Mentre seguiva il passo sicuro dei compagni, alla luce della lanterna, cercando di capire in che condizione fossero i suoi vestiti, l’occhio le cadde sulla piccola bambola di corda di lino che portava alla cintura, per contrastare gli effetti nocivi delle terre selvagge. La prese fra le dita ed ebbe un sussulto: le gambe del feticcio erano tinte di un colore nero putrido, come se il materiale di cui era fabbricato fosse a un tratto marcito. Non era sporca di terra, ma aveva assorbito qualcosa di assai più oscuro. Deglutì. Di bene in meglio.

